La responsabilità amministrativa degli enti rappresenta una tematica sempre più attuale alla luce del progressivo ampliamento dell’elenco dei c.d. reati presupposto contenuto nel D.Lgs. 231/2001.
Con l’implementazione da parte del legislatore del numero e delle tipologie dei reati che fanno sorgere la responsabilità amministrativa da 231 si è assistito, infatti, ad un moltiplicarsi dei relativi procedimenti; anche la giurisprudenza si è, quindi, sempre più frequentemente trovata a decidere in relazione alle diverse questioni critiche che via via si sono presentate in ordine a tale istituto che, pur non essendo di recente introduzione, non aveva sino a pochi anni fa avuto una diffusa applicazione date le limitate ipotesi di configurabilità.
Nella recente sentenza n. 45472 del 28.10.2016 la Corte di Cassazione si è occupata del tema dell’applicabilità delle sanzioni amministrative previste dall’articolo 9 del D.Lgs. 231/2001 in caso di richiesta di patteggiamento ex articoli 444 c.p.p. e 63 D.Lgs. 231/2001.
Si rammenta brevemente che il sistema configurato dal D.Lgs. 231/2001 prevede che l’illecito amministrativo dipendente dalla commissione di un reato possa essere punito con:
- una sanzione pecuniaria;
- le sanzioni interdittive;
- la confisca;
- la pubblicazione della sentenza.
A loro volta, le sanzioni interdittive si suddividono in:
a) interdizione dall’esercizio dell’attività;
b) sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito;
c) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio;
d) l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi;
e) il divieto di pubblicizzare beni o servizi.
La sanzione amministrativa pecuniaria è sempre irrogata ex articolo 10 comma 1 D.Lgs. 231/2001; le sanzioni interdittive, invece, si applicano relativamente agli illeciti per i quali sono espressamente previste e solo in caso di reiterazione degli illeciti o se “l’ente ha tratto dal reato un profitto di rilevante entità e il reato è stato commesso da soggetti in posizione apicale ovvero da soggetti sottoposti all’altrui direzione quando, in questo caso, la commissione del reato è stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative”.
Nel caso oggetto della sentenza in commento ad una società era stata contestata la responsabilità amministrativa ex articolo 25-bis 1 D.Lgs. 231/2001 in relazione al reato di frode nell’esercizio del commercio, p. e p. dall’articolo 515 c.p., per avere commercializzato molluschi pescati abusivamente.
Nel corso del procedimento penale instauratosi la società aveva tenuto un comportamento collaborativo ed aveva raggiunto un accordo ex articolo 444 c.p.p. con il Pubblico Ministero, concordando una pena pecuniaria determinata nel minimo edittale oltre all’applicazione della sola sanzione interdittiva del divieto di pubblicità di beni e servizi.
Il Giudice per le Indagini Preliminari, pur accogliendo la richiesta ex articolo 444 c.p.p., aveva tuttavia disposto l’applicazione di tutte le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9 D.Lgs. 231/2001, rilevando che l’articolo 25-bis 1, comma 2, D.Lgs. n. 231/2001, prevede che, “in caso di condanna (…) si applicano all’ente le sanzioni interdittive previste dall’art. 9, comma 2” e ritenendo che l’uso, nella disposizione, del plurale implicasse che le sanzioni interdittive dovevano essere applicate tutte cumulativamente, quale conseguenza della condanna e prescindendo dall’accordo delle parti.
La relativa sentenza era stata impugnata sia dalla società, sia dal Procuratore della Repubblica, che contestavano il vizio di violazione di legge in relazione agli articoli 9 comma 2, 14 e 63 D.Lgs. 231 del 2001, poiché “secondo quanto chiarito dalle Sezioni Unite, il sistema sanzionatorio previsto dal decreto sulla responsabilità degli enti prevede un sistema binario di sanzioni principali, pecuniarie e interdittive; essendo, dunque, le sanzioni interdittive principali, e non già accessorie, non possono essere applicate in violazione dell’accordo raggiunto tra le parti ex D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 63”.
La Corte di Cassazione ha accolto i ricorsi, richiamando i principi di diritto affermati dalle Sezioni Unite in tema di responsabilità da reato degli enti e di confisca del profitto dell’illecito, secondo cui quest’ultima misura si configura come sanzione principale, obbligatoria ed autonoma rispetto alle altre previste a carico dell’ente (SS.UU., n. 26654 del 27/03/2008).
La Suprema Corte ha quindi precisato che la natura principale della confisca è stata affermata sul presupposto sistematico che “il sistema sanzionatorio proposto dal D.Lgs. n. 231 fuoriesce dagli schemi tradizionali del diritto penale – per così dire – “nucleare”, incentrati sulla distinzione tra pene e misure di sicurezza, tra pene principali e pene accessorie, ed è rapportato alle nuove costanti criminologiche delineate nel citato decreto. … La tipologia delle sanzioni, come si chiarisce nella relazione al decreto, si presta ad una distinzione binaria tra sanzione pecuniaria e sanzioni interdittive; al di fuori di tale perimetro, si collocano inoltre la confisca e la pubblicazione della sentenza“.
La Corte ha, inoltre, ribadito quanto già espresso in una precedente pronuncia, la n. 45130 del 30.10.2008, secondo cui “nell’ipotesi in cui l’accesso alla definizione concordata della sanzione consegua al “patteggiamento” ovvero alla “patteggiabilità” del reato presupposto – qualora si tratti di un illecito amministrativo, per il quale va applicata, oltre alla pena pecuniaria, una sanzione interdittiva temporanea, anche quest’ultima deve formare oggetto dell’accordo delle parti, risultando riducibile la sua durata “fino a un terzo” a mente del comb. disp. dell’art. 63, comma 2 del decreto e art. 444 c.p.p., comma 1”.
Sulla base di tali premesse, la Cassazione ha quindi precisato che, poiché le sanzioni interdittive sono sanzioni principali e non accessorie, come risulterebbe desumibile anche dal tenore dell’articolo 14 D.Lgs. n. 231/2001, che ne definisce i criteri di commisurazione e di scelta richiamando il corrispondente articolo 11 sulle sanzioni pecuniarie, esse devono essere oggetto di un espresso accordo processuale tra le parti in ordine al “tipo” e alla “durata”.
Di conseguenza, secondo la Suprema Corte, la sentenza impugnata risultava illegittima nella parte in cui aveva applicato cumulativamente le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9 comma 2 D.Lgs. n. 231/2001, in violazione dell’accordo processuale raggiunto sull’applicazione della sola sanzione del divieto di pubblicizzazione di beni e servizi: “il rapporto negoziale intercorso tra le parti, infatti, preclude al giudice di applicare una sanzione diversa da quella concordata, in quanto la modifica in peius del trattamento sanzionatorio, sia pure nei limiti della misura legale, altera i termini dell’accordo e incide sul consenso prestato”.
Sulla base di tale interessante principio di diritto la Corte ha, quindi, annullato la sentenza impugnata nella parte in cui aveva disposto l’applicazione delle sanzioni interdittive non specificamente oggetto dell’accordo ex articolo 444 c.p.p. e articolo 63 del D.Lgs. 231/2001.