Il D.lgs. 15 settembre 2017, n. 145, ha introdotto l’obbligo in Italia di indicazione sull’etichettatura dei prodotti alimentari pre-imballati della sede e dell’indirizzo dello stabilimento di produzione o, se diverso, di quello ove avviene il confezionamento.
Il provvedimento, pubblicato in gazzetta ufficiale il 7 ottobre scorso e che esplicherà la sua piena efficacia il 5 aprile 2018, ha previsto un periodo transitorio di 180 giorni per consentire agli Operatori del Settore Alimentare lo smaltimento delle etichettature già stampate e applicate ai prodotti immessi in commercio.
La norma in commento – concepita per ampliare le garanzie informative del consumatore e abbreviare i tempi di risposta in caso di crisi alimentare – ha suscitato non poche polemiche per l’asserita reintroduzione di un obbligo superato dall’organica disciplina della materia a suo tempo introdotta dal Regolamento UE n.1169/2011.
Le sanzioni per mancata indicazione del luogo di produzione o di confezionamento, difatti, originariamente contemplate dal D.lgs. n. 109/92, erano state abrogate nel dicembre del 2014 dalla piena entrata in vigore del Regolamento n.1169/2011, che era finalmente riuscito a stabilire regole comuni sull’immissione in commercio dei prodotti agroalimentari, che potessero agevolarne la libera circolazione.
Il D.lgs. di recente promulgazione prevede, tuttavia, talune eccezioni ai predetti obblighi di etichettatura, principalmente riferite al vino et similia, prevedendo, altresì, la non applicazione della novella in commento ai prodotti alimentari:
- la cui sede di produzione o, se diversa, di confezionamento coincide con quella dell’operatore responsabile;
- che riportano in confezione un marchio di identificazione o una bollatura sanitaria;
- per i quali l’indicazione dello stabilimento risulta già presente nella denominazione del marchio.
E’ evidente che gli obblighi introdotti determineranno sensibili costi aggiuntivi per gli operatori nazionali del settore alimentare, gravando – in particolare – sugli importatori di prodotti alimentari che si troveranno costretti ad esplicitare l’indicazione del luogo di produzione o di confezionamento di un prodotto, proveniente da territorio estero ed introdotto, per la successiva commercializzazione, in Italia.
Prescindendo da tali aspetti, la norma in commento sembra riproporre l’annosa questione della responsabilità degli adempimenti in materia di etichettatura, già affrontata dalla dottrina all’indomani dell’entrata in vigore del più volte menzionato Reg. UE n. 1169/2011.
La descritta evenienza conferma la complessità della disciplina che regola la produzione e commercializzazione dei prodotti alimentari: partendo dalle disposizioni specifiche applicabili agli alimenti in particolari circostanze o a particolari gruppi di alimenti, passando dalla corretta interpretazione della normativa comunitaria orizzontale e verticale riguardante taluni settori, il tutto da coordinare con la normativa nazionale di attuazione.
La situazione non è semplificata dall’analisi delle diverse finalità dell’etichettatura, che non vanno perse di vista per capire gli scopi del quadro normativo e regolamentare di riferimento e, elemento non di dettaglio, per comprenderne appieno la portata applicativa: dalla sfera dell’etichettatura nutrizionale a quella che presiede la regolazione delle allergie e delle intolleranze, senza trascurare la necessaria indicazione dell’origine degli alimenti e il giusto bilanciamento tra previsioni informative di carattere obbligatorio e volontario.
Con il Regolamento UE 1169/2011, all’art. 8.1., si sancisce la responsabilità del soggetto con il cui nome o ragione sociale è commercializzato il prodotto alimentare.
Come chiarito dal Ministero dello Sviluppo Economico e dalla Commissione Europea, coerentemente con le disposizioni del “Pacchetto Igiene” contemplato nel Regolamento CE 178/02, la responsabilità per le informazioni sul prodotto va a ricadere su colui il quale ha il potere di manipolare in modo definitivo e determinante le indicazioni sullo stesso e che, pertanto, deve comparire con il proprio marchio/nome/ragione sociale e indirizzo.
La citata chiave interpretativa in tema di responsabilità, anche in ragione della progressiva diffusione di produzioni in conto terzi, non offre concreta soluzione all’eterogenea casistica in materia e non aiuta nell’individuazione di idonee misure di tutela nei casi di frode commerciale ove – come intuibile – non può non essere chiamato in causa anche colui che lavora in regime di private label.